L’istituzionalizzazione è un avvenimento complesso sia dal punto di vista funzionale che organizzativo. Nel corso degli anni, tale complessità ha reso sempre più evidente la necessità di superare il ricovero dei minori in istituti poiché tale misura –proprio per il modo in cui funziona ed è organizzata- non è ritenuta idonea a soddisfare i bisogni di bambini e adolescenti provenienti da famiglie multiproblematiche e con gravi disagi psico-sociali. Per meglio analizzare e comprendere il fenomeno dell’istituzionalizzazione, sono stati condotti diversi studi.
Già a partire dai pioneristici studi di Spitz (1945), Goldfarb (1945), Provence e Lipton (1962), Wolkind (1974) e di Tizard e Houges (1978), è stata documentata la presenza di disturbi dell’attaccamento nei bambini istituzionalizzati. In particolare sono stati osservati problemi di reciprocità e di comunicazione con gli altri, comportamenti poco responsivi e caratterizzati da ritiro emotivo (in seguito raggruppati sotto l’etichetta diagnostica di Reactive Attachment Disorder-RAD), socievolezza indiscriminata e dall’assenza di una specifica e selezionata figura di attaccamento, la ricerca di vicinanza e di attenzione nei confronti non solo dei caregivers familiari, ma anche di altri adulti estranei (in seguito raggruppati sotto l’etichetta diagnostica di Disinhibited Social Engagement Disorder-DSED).
La situazione psicologica dei bambini precocemente deprivati è dunque aggravata dall’istituzionalizzazione che, a sua volta, contribuisce all’esperienza di deprivazione. L’istituto infatti, richiede ai suoi ospiti un’incondizionata accettazione delle proprie regole, utilizzando –alle volte- una comunicazione di tipo impersonale. In istituto, infatti, alle cure attente e personalizzate dei genitori si sostituiscono i rituali ripetitivi del personale in servizio; ai ritmi tipici delle dinamiche familiari, si sostituiscono i contatti rapidi, precisi e professionali del personale, con una conseguente standardizzazione dei processi di scambio e di comunicazione tra adulto e bambino, e con la conseguente incapacità di quest’ultimo di poter costruire rapporti significativi con gli altri.
È doveroso altresì ricordare che i ritardi o le compromissioni dello sviluppo cognitivo si intersecano inevitabilmente anche con le compromissioni riguardo la sfera dell’attaccamento, in conseguenza, appunto, dell’esperienza di istituzionalizzazione. Non è improbabile, infatti, che la crescita cognitiva sia ostacolata anche dall’assenza di un sentimento di fiducia di base e dalla mancanza di un equilibrio tra ricerca di prossimità verso il caregiver per il bisogno di protezione ed esplorazione dell’ambiente, peculiarità proprio dell’attaccamento insicuro o disorganizzato che spesso viene riscontrato nei bambini istituzionalizzati (Rutter, Kreppner, e O’connor, 2001; Gunnar et al., 2007; Rutter, 1981). Lo sviluppo cognitivo, infatti, sembra influenzare le rappresentazioni dell’attaccamento sia nei bambini adottati (Vorria et al., 2006), che nei bambini non adottati (Stievenart, Roskam, Meunier, e Van de Moortele, 2001).
Va però precisato che il fattore di rischio da prendere in considerazione non è tanto l’esperienza di istituzionalizzazione preadottiva in sé, quanto piuttosto l’istituzionalizzazione caratterizzata da estreme deprivazioni. La maggior parte delle ricerche condotte a livello internazionale, si sono svolte in contesti particolarmente disagiati, dove le istituzioni (soprattutto nei Paesi dell’Est), rappresentano degli ambienti particolarmente deprivanti.
La relazione tra il tempo trascorso in istituto e gli esiti che ne conseguono, non è però chiara e lineare.
Nello studio St. Petersburg-USA Orphanage Research Team (2008) infatti, ha mostrato che un caregiving di tipo sensibile e contingente, insieme ad un personale qualificato e ad una ratio staff-minori non particolarmente alta, ha prodotto notevoli miglioramenti nella sfera dello sviluppo fisico e mentale dei bambini che erano ospiti in quell’istituto (The St. Petersburg-USA Orphanage Research Team, 2008).
Diversi studi (The St. Petersburg-USA Orphanage Research Team, 2008; Goark, McCall, McCarthy, Eichner, e Gee, 2013; McCall, 2013) sottolineano infatti che laddove vi sia una buona organizzazione all’interno dell’istituto -intendendo con quest’ultima un numero limitato di bambini per caregiver, la presenza di volontari che passano un tempo ludico qualitativamente sufficiente con i bambini della struttura, l’assenza di punizioni forti qualora venga attuato un comportamento non conforme alle regole- la qualità degli outcomes comportamentali dei bambini può essere positiva.
Le strutture di accoglienza italiane per minori in stato di abbandono sono infatti istituite sulla base della garanzia di “un’organizzazione e di rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia” e che i minori debbano essere inseriti esclusivamente nelle comunità di tipo familiare, organizzate appunto similmente ai contesti familiari (Legge 149, art.2, commi 4 e 5). Sono presenti operatori specializzati (psicologo, neuropsichiatra, educatori) che lavorano in equipe, e sono turnanti 24 ore su 24. È sempre presente un responsabile delle struttura. L’equipe è supervisionata da un coordinatore, la cui attività consiste nell’assicurare il coordinamento degli interventi educativi e nell’attivare un lavoro di rete attorno alla struttura, curando la collaborazione dell’equipe con i servizi territoriali preposti. L’obiettivo principale delle comunità è lo svolgimento delle funzioni genitoriali o parentali e la componente affettiva è fortemente enfatizzata. Assicurare una disponibilità affettiva e promuovere relazione stabili e significative è dunque un importante fattore: il compito è quello di natura “familiare”, poichè prevede lo sviluppo di modelli relazionali della famiglia, della quale infatti ne ripropongono l’organizzazione.
Sembra quindi che la totale accezione negativa che l’istituzionalizzazione evoca, non sia completamente applicabile.